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Food Safety
Sicurezza&Qualità

Nel giugno del 2016 EFSA definiva le nano- e microplastiche (NMP) un “rischio emergente” e presentava una prima valutazione sul rischio alimentare, richiesta dal German Federal Institute for Risk Assessment (BfR). Indagati speciali erano i frutti di mare, ma l’obiettivo era chiaramente aprire la discussione sulla catena alimentare nel suo complesso. La possibilità che questi composti fossero diffusi in fonti diverse da quelle marine andava indagata, insieme ai possibili effetti. 

Ci si chiedeva certamente quali fossero le conseguenze dei rifiuti in plastica nei mari e nei corsi d’acqua sugli habitat naturali e sulla fauna selvatica, ma la preoccupazione non poteva non estendersi alla catena alimentare, per quella visione olistica che definisce il concetto stesso di sostenibilità. 

La cosiddetta “zuppa di plastica”, isole galleggianti di plastica che si frammentano e si decompongono in particelle sempre più piccole fino alle dimensioni micro e poi nano, era ritenuta la principale responsabile delle microplastiche ritrovate nell’apparato digestivo di pesci, crostacei e molluschi. Trattandosi di fonti alimentari, l’equivalenza NMP - danno alla salute fu immediata. I dati disponibili nella lettura scientifica però descrivevano un quadro diverso: non che la situazione non fosse preoccupante, ma non c’era ancora prova empirica di danni alla salute. 

Quello che emerse dallo studio della letteratura fu una sostanziale lacuna dei dati sulla presenza di microplastiche negli alimenti; nessuna o pochissime informazioni sulle nanoplastiche e la necessità di formulare raccomandazioni sulle priorità di ricerca per il futuro prossimo.

Microplastiche primarie e secondarie

Le microplastiche si dividono in primarie e secondarie a seconda di come si sono formate. Le primarie sono quelle rilasciate direttamente nell’ambiente sotto forma di piccole particelle, che si stima rappresentino il 15-31% delle microplastiche presenti nell’oceano. La fonte principale però è data dal lavaggio di capi sintetici (35% delle microplastiche primarie), dall’abrasione degli pneumatici durante la guida (28%) e dalle microplastiche aggiunte intenzionalmente nei prodotti per la cura del corpo (per esempio, le micro-particelle dello scrub facciale) al 2%; quelle secondarie invece sono prodotte dalla degradazione degli oggetti di plastica più grandi, come buste di plastica, bottiglie o reti da pesca e rappresentano circa il 68-81% delle microplastiche presenti in ambiente marino (fonte Parlamento Europeo). È stato stimato che la quantità totale di emissione secondaria di microplastiche nell’ambiente marino sia pari a 68.500-275.000 tonnellate all’anno (UE, 2016).

La presenza di NMP in ambienti diversi è quindi un indicatore di contaminazione preoccupante per la salute di tutto l’ecosistema, che spinge gli Organismi sovranazionali e Istituzioni pubbliche a produrre indicazioni (i primi) e norme (le seconde) per limitare la fonte primaria. I recenti divieti d’uso dei sacchetti di plastica o, in ultimo, dei materiali in plastica usa e getta perseguono questi obiettivi. 

I rischi per la salute umana

I profili eco-tossicologici dei composti aggiunti alla plastica per ottenere certe proprietà (ad esempio durabilità, flessibilità, resistenza ai raggi UV) sono noti. Non si sa con sufficiente certezza invece, il grado in cui questi additivi possono essere trasferiti e l’impatto sull’organismo. Non c’è dubbio che i decisori e i valutatori del rischio hanno bisogno di dati scientifici certi per valutare il rischio a cui è esposta la salute umana: dovremo per lungo tempo avere a che fare con queste sostanze e quindi decidere le azioni di mitigazione. Lo ha spiegato Carmen Losasso dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (ISZVe) presentando un importante lavoro di un consorzio denominato Plastrisk di cui fa parte e ne è capofila lo stesso IZSVe. Si tratta di un approccio olistico per valutare il rischio per la salute umana delle nano- e microplastiche in seguito a ingestione e inalazione e copre tanto la presenza di NMP negli alimenti, quanto quella nell’aria che respiriamo. Il consorzio internazionale ha recentemente pubblicato una sintesi dei possibili nuovi paradigmi di cui bisogna tener conto, attraverso l’acquisizione di nuovi dati mediante l’impiego di nuove tecnologie, strumenti modellistici innovativi e il coinvolgimento partecipato di cittadini, esperti scientifici e portatori di interesse, (Noventa, S., Boyles, M.S.P., Seifert, A. et al. Paradigms to assess the human health risks of nano- and microplastics. Micropl.&Nanopl. 1, 9. 2021). 

Alla plastica, infatti, si associano rischi diversi: innanzitutto “un rischio fisico, a cui si aggiunge la capacità di fare da supporto e adsorbire contaminanti dall’ambiente”, riassume Losasso. “C’è poi un rischio biologico che deriva dalla capacità di fare da supporto a comunità microbiche che sviluppano strategie nuove, trasformando la microplastica in un nuovo pericolo: batteri capaci di trasferire pezzi di geni, trovandosi vicini, possono scambiarli tra di loro (e se sono geni di antibiotico resistenza, si rischia che questi ultimi siano trasferiti ad ambienti che ne sono ancora immuni, come quelli marini)”. Ma non solo. Il lavoro fa luce anche sull’importanza della corretta informazione: “Si parla molto di microplastiche sui media”, aggiunge Losasso, “ma l’informazione tiene poco conto dei dati scientifici. È necessario rendere consapevoli i cittadini su quali siano i veri rischi, quali alimenti siano più interessati dal problema e su come mitigare il rischio”.

Le fasi del progetto infatti (che dovrebbe durare 4 anni, è in corso una richiesta di finanziamento europeo) ricalcano idealmente quelle della valutazione del rischio: identificazione del pericolo, valutazione dell’esposizione, caratterizzazione del pericolo e modellizzazione del rischio. Si vuole infine riunire i vari stakeholders, in ottica di citizen science, per coinvolgere i cittadini in un rapporto attivo con la scienza, indagare la percezione del rischio che questi hanno rispetto al tema e dare strumenti al legislatore per condurre una valutazione del rischio sanitario science based in relazione al pericolo di ingestione e inalazione di questi nuovi contaminanti della catena alimentare.