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L’editoriale

Tradizione, territorio, sostenibilità, eccellenze, tecnologie, innovazione, digitalizzazione, novel food, energie rinnovabili, idrogeno, biocarburanti… potrei continuare questo elenco di parole che ormai da anni, tutti noi attori del settore agroalimentare stiamo ripetendo come un mantra, cercando di promuovere e affermare un approccio trasversale verso le filiere. Oggi, nell’attuale situazione economica, sociale e geopolitica, le stesse parole assumono un altro significato di priorità differente. 

Continuiamo a resistere alla crisi profonda provocata dalla pandemia mondiale con grande rigore e perseveranza, mettendo in atto metodi e strategie di resilienza, che altrimenti sarebbero rimaste per chi sa quanto tempo ancora nella loro fase embrionale pre-Covid. 

Negli ultimi due anni siamo riusciti, con non poco dolore, a deciderci finalmente di abbandonare alcuni pregiudizi verso le novità che faticavamo ad accettare, forse a causa del classico “abbiamo fatto sempre così, siamo andati bene sino a ora” e proprio quando ci sembrava di uscire dal tunnel, ci siamo trovati rimbalzati in un nuovo vortice di incertezze. 

Mentre stavamo lottando con il “nemico invisibile” concentrando ogni nostro sforzo su igienizzare, pulire, disinfettare e sanificare il mondo per scacciare via il virus, forse abbiamo perso di vista altri importanti fattori che non si sono fatti tanti problemi a invadere le nostre vite anche in presenza del Covid. Sapevamo che le conseguenze della pandemia sarebbero state pesanti e che ci aspettavano momenti duri, con mille difficoltà in arrivo, ma forse abbiamo sottovalutato la possibilità che le cose potessero peggiorare a causa di altri fattori.

Oggi, a due anni esatti dall’inizio della nostra battaglia contro un nemico invisibile, ci stiamo trovando nel bel mezzo di una vera guerra con tanto di bombardamenti, caos, persone sfollate, gente in fuga, feriti e morti. La lunga attesa del ritorno alla normalità si è trasformata di colpo in un altro incubo che ci riporta indietro nel tempo di 70 anni fa durante la Seconda Guerra Mondiale. 

La domanda lecita, quindi è: stiamo andando avanti oppure a rovescio? Personalmente ho qualche dubbio, o meglio, penso sia necessario un profondo ragionamento su alcuni concetti insediatesi, negli ultimi anni, come pensieri che avrebbero dovuto portarci verso il progresso della filiera alimentare anche per sconfiggere la fame nel mondo.

Facciamo un passo indietro: dopo la Seconda Guerra Mondiale la popolazione mondiale si aggirava intorno a poco più di 2,5 miliardi di persone, a gennaio 2022 ha toccato quota 8 miliardi e secondo le stime dall’ONU, nel 2050 potremmo raggiungere i 10 miliardi di persone. 

Questi dati significano semplicemente una cosa e cioè, che se la popolazione mondiale continua a crescere a ritmo costante, è evidente la necessità di dover produrre sempre più cibo. I metodi tradizionali di coltivazione/allevamento/produzione non possono essere sufficienti a far fronte a una crescita così imponente della domanda, ma anche alla sfida climatica, alla carenza di fonti energetiche, materie prime e imballaggi, senza dimenticare la scarsità di manodopera generica e qualificata. 

Maggior ragione nell’attuale contesto sociale e geopolitico che pur non volendo cadere nel pessimismo, dobbiamo ammettere, forse non è mai stato così complesso e imprevedibile nella storia moderna dell’umanità. Diventerà cruciale quindi sviluppare e introdurre in larga scala tecnologie di filiera alternative e meno impattanti sull’ambiente nelle fasi di lavorazione, trasformazione, conservazione, trasporto e stoccaggio. 

Attenzione però al paradosso: se da un lato la cosiddetta “Rivoluzione Verde” iniziata a metà del 1900 era basata sul rinnovamento delle pratiche agricole portando alla diffusione globale di tecnologie per aumentare i raccolti soprattutto nelle aree più povere della terra, contribuendo così alla rapida crescita della popolazione mondiale, dall’altro lato la “Green Revolution” ha aperto le porte a nuove problematiche con importanti conseguenze. Gli allevamenti intensivi, le sovrapproduzioni agricole e l’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti artificiali hanno contribuito al peggioramento delle condizioni alla base del cambiamento climatico. 

Norman Borlaug, l’ideatore della Green Revolution ha ricevuto nel 1970 il premio Nobel per la Pace per il suo ruolo nella lotta alla fame nel mondo, al grido di: “Il mondo ha a disposizione – o è in procinto di avere – la tecnologia necessaria per permettere a dieci miliardi di persone una nutrizione sostenibile”. 

Sembra però che il mondo abbia deciso di intraprendere una deviazione che, alla luce di fatti odierni, è ben lontana della Pace ed è in forte contraddizione con i concetti di sostenibilità che sono i primi a essere portati in secondo piano quando si è costretti di pensare alla pura sopravvivenza dei sistemi economico-sociali dei Paesi. 

Per non generalizzare, iniziamo a vedere come stanno le cose a casa nostra: il prezzo del grano è aumentato del 38,6% in una settimana dall’inizio della guerra in Ucraina, così come del 17% il prezzo del mais e del 6% quello della soia destinati all’alimentazione animale. Le quotazioni alla borsa merci di Chicago, punto di riferimento mondiale del commercio dei prodotti agricoli, registra il futuro più attivo sul grano a 11,91-1/4 dollari per bushel (27,2 chili) ai massimi da marzo 2008 mentre il mais a 7,6 dollari per bushel al top da 10 anni e la soia a 16,78 dollari per bushel. La situazione geopolitica e la chiusura dei porti sul Mar Nero impediscono le spedizioni e creano carenza sul mercato mondiale dove Russia e Ucraina insieme rappresentano il 29% dell’export di grano e il 19% di quello di mais (fonte Coldiretti).

Nell’attuale scenario di emergenza mondiale, purtroppo l’Italia è un Paese deficitario che è costretto di importare addirittura il 64% del proprio fabbisogno di grano tenero per la produzione di pane e biscotti e il 53% del mais per l’alimentazione del bestiame e nella nuova PAC ci sono incentivi per non coltivare il suolo.

Sono innumerevoli e intrecciate le cause che hanno provocato negli ultimi 10 anni una riduzione sensibile di quasi 1/3 la produzione nazionale di mais e alla perdita di quasi mezzo milione di ettari coltivati perché molte industrie hanno preferito continuare ad acquistare per anni (in modo speculativo, ndr) sul mercato mondiale, anziché garantirsi gli approvvigionamenti con prodotto nazionale attraverso i contratti di filiera. 

E non possiamo continuare a chiudere gli occhi davanti al fatto che il grano duro che serve a produrre una delle indiscusse eccellenze italiane – la pasta – sia pagato ai nostri agricoltori meno di quello proveniente dall’estero da Paesi come il Canada dove è coltivato peraltro con l’uso del diserbante chimico glifosato in pre-raccolta, vietato per utilizzo ai produttori italiani. 

Burocrazia, troppi controlli… o qualcos’altro? Domande retoriche senza risposta di fronte al cortocircuito nel settore agricolo nazionale innescato già a causa della pandemia. E come ben sappiamo “due torti non fanno un dritto” e tra l’emergenza sanitaria e la guerra in atto le scintille dell’inflazione non aiutano a raddrizzare il tiro. Sono praticamente raddoppiati in Italia i costi delle semine per la produzione di grano per effetto di rincari di oltre il 50% per il gasolio necessario alle lavorazioni dei terreni ma ad aumentare sono pure i costi dei mezzi agricoli, dei fitosanitari e dei fertilizzanti che arrivano anche a triplicarsi. Sappiamo pure bene che si raccoglie ciò che si semina e se seminiamo caro, gli effetti su tutte le filiere potrebbero diventare ingovernabili nel prossimo futuro.

Potrei continuare a lungo l’elenco dei rincari che toccano e toccheranno praticamente ogni settore, bene, materia prima e prodotto finito, perché l’effetto domino dei prezzi alle stelle dell’energia, il gas e i carburanti uscirà allo scoperto molto presto e l’ondata d’urto di ritorno non potrà che non colpire tutti i protagonisti della filiera, inclusi ovviamente i consumatori.

Già, i consumatori per i quali quale salute e benessere sono il principale obiettivo da salvaguardare per ogni Operatore del settore alimentare che si trova attualmente sul crocevia di scelte durissime imposte dai cambiamenti, il focus della sostenibilità e la cruda verità dell’economia reale che non fa sconti a nessuno.

E se adesso ci troviamo tutti, in una situazione di scacco matto è proprio perché il bianco e il nero, il giusto e lo sbagliato si sono mescolati in una nuvola grigia che non ci permette di vedere chiaro come fare la prossima mossa, quella vincente. 

Nell’Unione Europea c’è bisogno di una rivoluzione profonda e ampia, che partendo da una nuova visione della politica energetica e agroalimentare che punta al raggiungimento graduale della minore dipendenza di materie prime importate. Dobbiamo trovare coraggio e forza di sfruttare i cambiamenti in atto imposti della crisi per fare il grande passo in avanti verso un futuro che sfrutta in maniera responsabile le risorse della Terra, garantendo migliori condizioni di vita e benessere per tutti in un ambiente salubre e in una società pacifica.

di Massimo Artorige Giubilesi

Presidente Ordine dei Tecnologi Alimentari Lombardia e Liguria