“Carpaccio” e “Tartare” sono generalmente prodotti carnei che troviamo sempre più spesso nei banchi espositivi dei supermercati, preimballati, e che per consuetudine vengono consumati tal quali senza ricorrere alla cottura. Tali specialità prevedono comunque un condimento e recano spesso in etichetta l'indicazione “da consumarsi previa cottura”. Una simile istruzione d’uso, che è comprensibile considerate le caratteristiche visive prossime alla carne fresca, rappresenta anche un escamotage a cui ricorrono molti operatori del settore alimentare i quali, così facendo, ritengono di poter classificare i propri prodotti automaticamente come “non ready to eat”.

Infatti, considerati i parametri fisico-chimici quali l’aw (attività dell’acqua) e il pH, tali prodotti verrebbero inseriti nella categoria degli alimenti pronti che costituiscono terreno favorevole alla crescita di L. monocytogenes, di cui al cap. 1 dell’allegato I al Reg. CE 2073/2005, che prevede inoltre l’assenza di Salmonella in 25 grammi, con le dovute eccezioni per quei prodotti per i quali vi sia una giustificazione scientifica in conformità all’allegato II del medesimo regolamento (modelli matematici predittivi, ecc.).
Una semplice indicazione d’uso, quindi, offre la possibilità all’OSA di far ricadere il prodotto nel campo di applicazione dell’Ordinanza ministeriale 7 dicembre del 1993 la quale, sia per le modalità di prelievo che per i limiti microbiologici, prevede la determinazione di L. monocytogenes in alimenti sfusi o preconfezionati destinati per loro natura ad essere consumati previa cottura o che rechino sulla confezione la dizione “da consumarsi previa cottura”. Un’opportunità non da poco considerata la nota ministeriale Dgisan 45821-04/12/2018 dove è esplicitato che “per i prodotti destinati ad un consumo previa cottura e quindi non ready to eat il riscontro della presenza di Listeria monocytogenes costituisce solo un criterio di processo e quindi deve indirizzare l’Operatore del Settore Alimentare (OSA) ad effettuare la verifica del proprio processo produttivo procedendo alla ricerca ed eliminazione della eventuale fonte di contaminazione nello stabilimento di produzione e/o a monte del processo di produzione, sulla materia prima”.

Salsiccia o salsiccia fresca?
Una situazione per alcuni aspetti analoga è quella che vede da un lato la “Salsiccia” e dall’altro la “Salsiccia fresca”, prodotti con denominazioni similari che da alcuni anni vengono commercializzati anch’essi preimballati e che presentano caratteristiche chimico-fisiche sovrapponibili alla “tartare” e “carpaccio” con medesime condizioni di conservazione e istruzioni d’uso “da consumarsi previa cottura”.
A complicare le cose è la presenza, nella quasi totalità dei casi esaminati e per tutte le tipologie di alimenti citati, di additivi conservanti quali i nitriti tra gli ingredienti in etichetta, il cui impiego è consentito nella fabbricazione di “prodotti a base di carne” mentre è vietato nelle “preparazioni di carni”. In queste ultime infatti, con l’entrata in vigore del Reg. UE 601/2014, i soli additivi ammessi sono quelli ad azione antiossidante quali acido acetico (E260-263), acido lattico (E270, E325-327), acido ascorbico (E300-302), acido citrico (E330-333) e i loro sali.
A questo punto, per una corretta classificazione dei prodotti e per i successivi controlli finalizzati alla verifica dei criteri di sicurezza alimentare, diviene fondamentale stabilire a quale delle due tipologie di prodotto fare riferimento, indistintamente per tutti i prodotti alimentari oggetto della presente trattazione. Com’è noto l’allegato I al Reg. CE 853/2004 ci fornisce entrambe le definizioni, “Preparazioni di carni”: carni fresche, incluse le carni ridotte in frammenti, che hanno subito un’aggiunta di prodotti alimentari, condimenti o additivi o trattamenti non sufficienti a modificare la struttura muscolo-fibrosa interna della carne e ad eliminare quindi le caratteristiche delle carni fresche; e “Prodotti a base di carne”: i prodotti trasformati risultanti dalla trasformazione di carne o dall’ulteriore trasformazione di tali prodotti trasformati in modo tale che la superficie di taglio permette di constatare la scomparsa delle caratteristiche delle carni fresche.
Il Ministero della Salute, sulla scia dei contenuti delle definizioni sopra riportate, ha di volta in volta indicato alcuni parametri al fine di operare una chiara distinzione, come la determinazione della aw superiore o inferiore a 0,97 (Dgisan 39792-P-28/11/2012; Dgisan 828-P-13/01/2016) o la semplice percezione sensoriale come l’esame visivo della superficie di taglio per constatare la scomparsa o meno delle caratteristiche delle carni fresche (Dgisan 36818-P-27/09/2016).
A tal proposito è utile ricordare lo studio condotto presso la Stazione Sperimentale per l’Industria delle Conserve Alimentari (SSICA), in attesa di approvazione, il quale considera la misurazione della percentuale di proteine solubili totali sul totale delle proteine (proteine solubili totali/proteine g/100 g). Tale rapporto nella carne fresca e nelle preparazioni di carne è di solito superiore a 70 (> 70); mentre nei prodotti a base di carne si abbassa in quanto i trattamenti tecnologici riducono la solubilità delle proteine (< 70). Quindi, in base al pH e a questo indicatore, sarà possibile ricorrere ad un metodo oggettivo per distinguere una preparazione di carne da un prodotto a base di carne.
Appare evidente, infine, come la semplice aggiunta di additivi conservanti non può essere ritenuta sufficiente a classificare un alimento carneo come prodotto a base di carne (la stessa circolare ministeriale 08/02/1999 n.2, oggi disapplicata, prevedeva associato all’impiego di additivi conservanti anche un trattamento di asciugatura tale da consentire il raggiungimento di valori di aw inferiori a 0,97 per i prodotti di salumeria crudi).

Massimo Renato Micheli
Dirigente Veterinario SSN
Specialista in Diritto e Legislazione veterinaria

 

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