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Sull’uso della parola Grana è da tempo in corso una battaglia su diversi fronti in cui è in gioco il tema della genericità del termine. La questione, di recente, è tornata all’ordine del giorno a seguito di due sentenze che appaiono in contraddizione.

 La sentenza del Tribunale di Venezia

Il 25 maggio 2022, la Sezione Specializzata in Materia di Impresa del Tribunale di Venezia si è pronunciata nella causa tra il Consorzio per la tutela del formaggio Grana Padano e un’impresa non associata allo stesso, per l’utilizzo della parola “Grana”, secondo l’attore riservata al solo Grana Padano DOP, connesso al termine “Gran Moravia” sui prodotti della convenuta.

  1. Le posizioni delle parti

Il Consorzio ha basato la propria azione sulla violazione del Reg. UE 1151/2012 sostenendo che il prodotto contestato, prodotto nella Repubblica Ceca e pertanto non conforme al disciplinare di produzione, era definito “grana” nell’ambito di comunicazioni rivolte a terzi, anche a mezzo web o social network, quali interviste rilasciate dal legale rappresentante dell’azienda produttrice, creando un’assimilazione tra il proprio prodotto e il Grana Padano.

L’azienda convenuta in giudizio eccepiva che l’uso del termine “grana” era avvenuto solo per specificare l’appartenenza del Gran Moravia alla categoria dei formaggi “grana” e la sua realizzazione secondo la tradizione e il gusto italiani senza con ciò voler creare un agganciamento al “Grana Padano”.

L’argomento principale della difesa si basa sulla tesi della genericità del termine “grana” da intendersi quale espressione della granulosità della pasta, derivante dalla particolare metodologia di produzione. Ciò sulla base dei seguenti aspetti:

  1. La decisione

Il Tribunale basa la propria decisione sul tema della genericità, utilizzando come percorso logico giuridico, i passi della sentenza Grana Biraghi della Corte di Giustizia nella causa T 291/03 del 12 settembre 2007, in cui il giudice comunitario aveva affermato che “per determinare se una denominazione sia divenuta generica o meno, si debba tenere conto di tutti i fattori e, in particolare, della situazione esistente nello Stato membro in cui il nome ha la sua origine e nelle zone di consumo, della situazione esistente in altri stati membri e delle pertinenti legislazioni nazionali e comunitarie”.

Pertanto il giudice:

Alla luce di quanto sopra, il Tribunale ha concluso che “l’utilizzo del termine ‘grana’ per indicare formaggi, pure a pasta dura che fanno la ‘grana’, costituisce una violazione della denominazione di origine protetta, in considerazione del fatto che il termine ‘grana’ non può reputarsi generico”.

La sentenza del Tribunale di Torino

Grana riempitivoA poco tempo di distanza il Tribunale di Torino, con sentenza n. 707/2023 pubblicata il 17 febbraio 2023, emette sentenza con elementi contrari a quelli del Tribunale di Venezia. La causa nasce dall’iniziativa del Consorzio di tutela del Grana Padano nei confronti di un formaggio denominato “Gran Riserva Italia” che avrebbe evocato la DOP Grana Padano Riserva. Il Tribunale di Torino, afferma che “la parola ‘GRAN’ utilizzata dal caseificio convenuto non può ritenersi evocativa della parola ‘GRANA’, sia perché essa è un mero aggettivo riferito al sostantivo generico ‘RISERVA’, sia perché essa stessa, essendo un vocabolo generico della lingua italiana, deve ritenersi liberamente utilizzabile. Peraltro, il sostantivo “GRANA”, oltre a essere vocabolo descrittivo, ha il proprio precipuo valore ove accompagnato all’aggettivo “PADANO”, poiché è proprio nell’origine geografica che si sostanzia l’essenza e la ratio della tutela qui azionata”.

Conclude affermando che “nel caso in esame difetta l’incorporazione parziale nel cuore geografico della denominazione protetta nel segno utilizzato dall’operatore, poiché nella denominazione utilizzata non vi era alcun riferimento alla pianura padana e all’aggettivo ‘Padano’. Difetterebbe inoltre la similarità visiva, poiché i due contrassegni posti in comparazione sono ben distinti e differenti. Infine non vi sarebbe similarità concettuale proprio perché l’assenza della zona di origine (mediante l’uso del termine ‘padano’) escluderebbe in concreto il sorgere di un meccanismo di associazione tra i due termini”.

Il giudice richiama, nella propria decisione la sentenza della Corte di Giustizia che ha affermato che: “per accertare l’esistenza di un’“evocazione” di un’indicazione geografica registrata, spetta al giudice del merito valutare se il consumatore europeo medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, in presenza della denominazione controversa sia indotto ad avere direttamente in mente, come immagine di riferimento, la merce che beneficia dell’indicazione geografica protetta. Nell’ambito di tale valutazione detto giudice, in mancanza, in primo luogo, di una similarità fonetica e/o visiva della denominazione controversa con l’indicazione geografica protetta e, in secondo luogo, dell’incorporazione parziale di tale indicazione in tale denominazione, deve tener conto, se del caso, della somiglianza concettuale fra detta denominazione e detta indicazione” (v. Corte di Giustizia UE sentenza del 7.6.2018 nella causa C – 44/17).

Dall’analisi delle due sentenze emerge indubbiamente una contraddizione di posizioni su una tematica estremamente controversa e delicata, che concerne l’ampiezza della tutela che viene accordata alle denominazioni di origine. La questione della genericità nonché dell’evocazione sono concetti che saranno riaffrontati nella riforma del Reg. UE 1151/2011 in corso di discussione, che ci si augura possa fornire elementi che possano evitare decisioni contrapposte che creano incertezza nell’applicazione delle norme e rischi per gli operatori del settore.

Avv. Chiara Marinuzzi 
Studio Legale Gaetano Forte