Secondo alcune elaborazioni dei dati dell’Anagrafe Nazionale Zootecnica, a fine giugno 2021, il patrimonio zootecnico presente in Pianura Padana era costituito: dal 68% del totale nazionale dei bovini, (3.900.000 su 5.700.000); dall’88% dei suini italiani (7.800.000 su 8.850.000); dal 70% del patrimonio nazionale avicolo (103 milioni su 147).

Ora, mentre la superficie agricola utilizzabile tende a diminuire, abbondano anche programmi di economie di scala e di sviluppo degli allevamenti. Il dr. Sergio Piccinini, Responsabile del Settore Ambiente del CRPA, ci dà una mano a fare chiarezza sulle nebbie normative: “L’impatto delle produzioni zootecniche sull’ambiente ha ricadute soprattutto sulla qualità delle acque superficiali e profonde, sulla qualità dell’aria e sul cambiamento climatico. L’Unione Europea ha posto attenzione già da tempo nel contrastare tali effetti negativi attraverso specifiche direttive, recepite in normative nazionali”. 

Dottor Sergio Piccinini, quali sono gli equilibri da ottenere tra sviluppo ed emissioni? 

La lotta al cambiamento climatico e la zootecnia possono andare d’accordo anche se spesso questi due mondi vengono rappresentati come in contrasto tra loro, ignorando che già da diversi anni sia iniziato un processo di innovazione del settore con conseguenze positive sia per la produttività che per l’impatto ambientale. Dimostrare come i sistemi agricoli collegati alla produzione di latte possano essere attivi nella mitigazione del cambiamento climatico è stato, ad esempio, l’obiettivo del progetto europeo di ricerca Forage4Climate, concluso a fine 2020, coordinato dal CRPA (http://forage4climate.crpa.it). L’applicazione di buone pratiche colturali e la diffusione di strumenti di valutazione del carbon stock e delle emissioni di gas a effetto serra sono i due ambiti fondamentali su cui lavorare sia perché inscindibili per valutare l’impatto della produzione e dell’uso dei foraggi nell’allevamento dei ruminanti da latte, sia perché rappresentano aspetti con ampi margini di miglioramento. Per ogni kg di latte prodotto vi sono diversi fattori che contribuiscono alle emissioni di gas clima alteranti, che nel caso dei ruminanti sono in larga parte da attribuire alle emissioni enteriche e dalle deiezioni (in stalla e negli stoccaggi), all’acquisto di alimenti per la mandria (con conseguente acquisizione delle emissioni dovute alla loro produzione) e all’incidenza della quota di animali improduttivi (quota di rimonta). In sintesi, in Italia il settore agricolo rappresenta il 7% circa delle emissioni nazionali di gas serra, e in questo 7% gli allevamenti zootecnici contribuiscono per circa il 79% (circa il 37% quello delle vacche da latte). Il metano enterico prodotto dalle bovine e le emissioni prodotte dal letame e dai liquami rappresentano il 46% dei gas serra, mentre il 38% proviene dalla produzione, lavorazione e trasporto dei mangimi acquistati al di fuori dell’azienda. Si stima inoltre che il 14% dei gas sia prodotto dalle operazioni di campo, dalla produzione e trasporto di sementi, fertilizzanti e pesticidi oltre che alle emissioni dovute alla distribuzione sul campo di fertilizzanti organici e chimici. Infine il 2% sono le emissioni dovute al consumo di energia nella stalla. Le principali direttrici in cui l’innovazione si deve muovere per individuare le possibili azioni pratiche per mitigare l’impatto dell’allevamento bovino da latte sono tre: la produzione di alimenti zootecnici, la gestione dei liquami, la gestione e l’alimentazione della mandria. Per quanto riguarda le scelte di campo, la coltivazione di leguminose, le rotazioni e un incremento dei secondi raccolti sono le soluzioni proposte, con lo scopo di aumentare la produttività delle superfici aziendali, riducendo così l’acquisto di foraggi. Completano le misure una corretta gestione dei residui colturali, la riduzione di fertilizzazioni azotate e la reintroduzione dei prati, strumenti adottati al fine di accumulare sostanza organica nel suolo. Infatti sistemi foraggeri che prevedono presenza di foraggere poliennali e prati permanenti associati all’utilizzo del letame e del liquame prodotti in stalla contribuiscono a incrementare la quantità di sostanza organica nei suoli aziendali. Per quanto riguarda la gestione degli effluenti, occorre ottimizzare le tempistiche di distribuzione e le dosi di applicazione, favorendo l’iniezione diretta nel suolo. In allevamento un abbassamento delle emissioni passa da una corretta gestione di letame e liquami, coprendo le vasche di stoccaggio o favorendo il “crusting” cioè la formazione di croste sui liquami stessi, per ridurre le emissioni di ammoniaca. Per l’alimentazione della mandria è necessario ottimizzare le diete per ridurre le emissioni, obiettivo raggiungibile utilizzando foraggi di alta qualità, che insieme a un minor impiego di concentrati favorisce le dinamiche di fermentazione del rumine.

Quante e quali sono le direttive comunitarie – in generale e per la filiera latte in particolare – deve rispettare ?

Sostanzialmente sono tre: la 91/676 nota come Direttiva Nitrati, la 2016/2284 nota come Direttiva NEC, ma che non riguarda il settore bovino, il Regolamento 2018/842 sull’Accordo di Parigi. La Direttiva 91/676/CEE è stata emanata al fine di prevenire l’inquinamento delle acque da nitrati di provenienza agricola. La Direttiva, recepita nel 1999 e successivamente inclusa all’interno del Testo Unico sull’Ambiente (Decreto Legislativo 11 aprile 2006, n. 152), prevede la designazione di Zone Vulnerabili ai Nitrati di origine agricola (ZVN) e la predisposizione e applicazione di specifici “Programmi d’azione” che Foto3 ImpiantoBiogasAgricolostabiliscono le modalità con cui può essere effettuata l’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento nelle ZVN. Le norme nazionali, che attribuiscono alle regioni le competenze per l’approvazione/revisione dei programmi di azione, sulla base di criteri e norme tecniche generali emanate a livello nazionale, prevedono misure di prevenzione dell’inquinamento, nell’utilizzo degli effluenti di allevamento, non solo nelle zone vulnerabili, ma anche nelle cosiddette “zone ordinarie” attraverso, ad esempio, misure sullo stoccaggio degli effluenti, un limite per l’apporto di azoto zootecnico, criteri sulle modalità di spandimento vicino ai corsi d’acqua o sui terreni in pendenza etc. Per quanto concerne la qualità dell’aria le normative europee più rilevanti sono la Direttiva NEC (National Emission Ceilings) e la Direttiva IED (Industrial Emission Directive), che ha sostituito la Direttiva IPPC. La NEC fissa limiti nazionali delle emissioni di composti acidificanti, eutrofizzanti e precursori dell’ozono (fra cui ammoniaca e PM10), per migliorare la tutela dell’ambiente e della salute umana contro gli effetti nocivi di queste sostanze inquinanti. La direttiva, già emanata nel 2001, è stata revisionata nel 2016 (2016/2284/UE). L’attuazione a livello nazionale della nuova NEC avviene con il Decreto Legislativo 30 maggio 2018, n. 81. A seguito delle disposizioni contenute nel decreto e al fine di ridurre le emissioni di ammoniaca, che è uno degli inquinanti atmosferici per il quale la normativa prevede target di riduzione al 2020 (-5% rispetto al 2005) e al 2030 (-16% rispetto al 2005) per il settore agricolo è stata redatta una bozza del codice nazionale indicativo delle buone pratiche agricole che è propedeutica all’elaborazione del Programma Nazionale di controllo dell’inquinamento atmosferico, nel quale dovranno essere comprese le misure obbligatorie di riduzione dell’ammoniaca. Per quanto riguarda i gas serra gli impegni di riduzione già fissati per ciascuno Stato membro al 2030 nel Regolamento (UE) 2018/842, in ottemperanza agli impegni assunti con l’Accordo di Parigi del 2016 (per l’Italia -33% rispetto al livello nazionale 2005, superiore del 3% rispetto all’obiettivo complessivo europeo) sono ulteriormente rafforzati dai più recenti obiettivi del Green Deal europeo che si propone la neutralità climatica entro il 2050 e, per il settore agricolo, entro il 2035. Tale impegno non si traduce in specifiche disposizioni vincolanti per il settore zootecnico, che dovrà comunque contribuire al conseguimento degli obiettivi nazionali.

La produzione di biogas può rappresentare la soluzione del problema?

Nell’ambito del Gruppo Operativo per l’Innovazione Digestato&Emissioni (http://digestatoemissioni.crpa.it), Misura 16 del PSR dell’Emilia Romagna, coordinato dal CRPA, si è valutato in che misura la digestione anaerobica degli effluenti dell’allevamento incide sull’impronta carbonica delle aziende da latte e quali sono le condizioni per un’ottimale gestione del digestato, che minimizzino la volatilizzazione di ammoniaca e di gas serra sia in fase di stoccaggio che di distribuzione agronomica. Dal punto di vista ambientale, gli impianti di biogas a soli effluenti zootecnici permettono, infatti, di accumulare un “credito” di gas serra in atmosfera sia per le emissioni evitate dallo stoccaggio degli effluenti, sia perché il biogas sostituisce fonti fossili per la produzione di energia. Il digestato, tuttavia, per il tenore di azoto ammoniacale e pH più elevati rispetto al liquame, è soggetto a maggiori perdite di ammoniaca in atmosfera, a meno che non vengano messe in atto buone pratiche di mitigazione. La digestione anaerobica permette di ridurre significativamente le emissioni di metano dalla fase di stoccaggio del digestato rispetto allo stoccaggio del liquame tal quale. Lo stoccaggio del digestato presenta, tuttavia, criticità per le emissioni ammoniacali che incrementano significativamente rispetto al liquame tal quale. Infatti la digestione anaerobica porta alla mineralizzazione di parte dell’azoto organico in azoto ammoniacale con aumento del pH, fattori questi che aumentano la potenzialità emissiva per l’ammoniaca. La soluzione a questa problematica è certamente la copertura ermetica della vasca del digestato (almeno per i primi 30 giorni di stoccaggio) con recupero del biogas residuo. Oltre alle prove in fase di stoccaggio, si sono anche misurate le emissioni a seguito della distribuzione agronomica. Lo spandimento del digestato, rispetto al liquame tal quale, da un lato ha evidenziato una leggera riduzione delle emissioni di protossido d’azoto, dall’altro un incremento delle emissioni ammoniacali. La separazione solido/liquido in parte riduce la problematica in quanto il digestato chiarificato, meno viscoso, viene incorporato più velocemente dal terreno. Anche tecniche di distribuzione a bassa Foto2 AlaPiovanaemissività, quali ad esempio la distribuzione in bande sono state in grado di ridurre di circa il 30% le emissioni ammoniacali nella distribuzione del digestato chiarificato. La sostenibilità ambientale delle aziende è stata anche valutata mediante la quantificazione dell'impronta carbonica (Carbon Footprint, CFP) associata alla produzione del latte, con un approccio di ciclo di vita (Life Cycle Assessment, LCA). Con questo si intende la stima del complesso delle emissioni di gas serra, sia quelle che avvengono in stalla e nella fase di coltivazione dei terreni, che anche quelle che avvengono a monte dell’azienda, indotte dalla produzione dei mezzi tecnici utilizzati. Nel bilancio vanno poi considerate sia le emissioni prodotte che quelle evitate in conseguenza all’introduzione dell’impianto di digestione anaerobica. Con l’impianto di biogas l’impronta carbonica di 1 kg di latte per le due aziende coinvolte nel progetto è scesa da 1,3 a 1,1 kgCO2eq/kg latte per una e da 1,1 a 0,9 kgCO2eq/kg latte per l’altra, ossia la digestione anaerobica ha ridotto l’impronta carbonica del latte di circa il 20%. È un risultato molto significativo se si tiene conto che la maggior parte degli interventi di mitigazione delle emissioni di gas serra è in grado di ridurre l’impatto di pochi punti percentuali.

Il cosiddetto digestato, ovvero il residuo della fermentazione metanigena, ha pur sempre dei limiti di spandimento da rispettare?

Il digestato si presenta come un fluido piuttosto omogeneo, con contenuto di sostanza secca generalmente variabile tra il 5 e il 10%. Rispetto alle biomasse avviate a digestione si è impoverito degli elementi che costituiscono le due principali molecole del biogas, ovvero il metano (CH4) e l’anidride carbonica (CO2). Gli elementi della nutrizione vegetale, sia macronutrienti (N, P, K) che meso e micronutrienti, restano invece nel digestato e possono tornare ai campi per la fertilizzazione delle colture. La normativa che regola l’utilizzo agronomico del digestato discende dalla sopracitata Direttiva Nitrati e a oggi nel nostro Paese si concretizza nei regolamenti regionali derivati dalla applicazione del Decreto Ministeriale MIPAAF del 25 febbraio 2016, la prima norma nazionale che ha disciplinato l’impiego del digestato agrozootecnico e agroindustriale. Il limite massimo di applicazione di 170 kg N per ettaro per le Zone Vulnerabili si applica alla quota di azoto del digestato di origine zootecnica mentre per l’azoto derivato da altre biomasse digerite (es. residui colturali, sottoprodotti agroindustriali, altri) si deve rispettare il bilancio colturale che prevede di soddisfare i limiti di Massima Applicazione Standard (MAS) definiti per le diverse colture, tenuto conto dell’efficienza d’uso dell’azoto che dipende dal tipo di coltivazione e dall’epoca e modalità di distribuzione. Ad esempio nel caso del mais il MAS è di 280 kg N per ettaro; questo significa che è possibile apportare sino a questo valore di azoto efficiente ai fini della nutrizione del mais. In assenza di effetti residui dovuti a somministrazioni organiche degli anni precedenti, con distribuzione ad alta efficienza d'uso (65%), sarà possibile soddisfare tale esigenza del mais con 280/0,65 = 430 kg N per ettaro da solo digestato.

 

Pin It