Anche quest’anno nessuno Stato tra quelli considerati dal report raggiunge le performance necessarie a contrastare la crisi climatica. Italia sempre al centro della classifica, al 29° posto. Danimarca, Svezia, Cile, Marocco e India in testa. Iran, Arabia Saudita e Kazakistan ultimi. USA e Cina, principali responsabili delle emissioni globali, nelle posizioni di retroguardia.
Per Legambiente è necessario: “Invertire subito la rotta con la revisione del Piano Nazionale Energia-Clima in coerenza con l’obiettivo di 1.5°C”
Italia sostanzialmente in stallo nel contrasto alla crisi climatica: il Belpaese guadagna, infatti, appena una posizione rispetto allo scorso anno – è 29° anziché 30° – rimanendo ancorato al centro della classifica stilata dal Climate Change Performance Index 2023, il rapporto sulla performance climatica dei principali Paesi del Pianeta redatto da Germanwatch, CAN e NewClimate Institute in collaborazione con Legambiente per l’Italia. Le performance analizzate nel rapporto annuale hanno come parametro di riferimento gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e gli impegni assunti al 2030 e vengono misurate attraverso il Climate Change Performance Index (CCPI), basato per il 40% sul trend delle emissioni, per il 20% sullo sviluppo di rinnovabili ed efficienza energetica e per il restante 20% sulla politica climatica.
A pesare sul risultato italiano, si evidenzia nel report, sono principalmente il rallentamento nello sviluppo delle rinnovabili e una politica climatica ancora inadeguata a fronteggiare l’emergenza.
Restano vuote, anche quest’anno, le prime tre posizioni della classifica: nessuno tra gli Stati presi in considerazione dal rapporto – 59 nazioni più l’Unione Europea nel suo complesso, rappresentanti ben il 90% delle emissioni climalteranti del globo – ha infatti raggiunto le prestazioni necessarie a fronteggiare la crisi climatica e a contenere l’aumento della temperatura media globale entro la soglia critica di 1,5°C.
In cima alla classifica i Paesi scandinavi che continuano a guidare la corsa verso emissioni zero, nonostante la crisi energetica. Danimarca e Svezia, nello specifico, si posizionano rispettivamente al quarto e quinto posto, soprattutto grazie al loro impegno per l’abbandono delle fonti fossili e nello sviluppo delle rinnovabili. Le seguono Cile, Marocco e India che rafforzano l’azione climatica, nonostante le loro difficili situazioni economiche. In fondo alla classifica troviamo, invece, Paesi esportatori e utilizzatori di combustibili fossili come Iran, Arabia Saudita e Kazakistan.
La Cina, maggiore responsabile delle emissioni globali, scivola al 51° posto perdendo ben 13 posizioni rispetto allo scorso anno: nonostante il grande sviluppo delle rinnovabili, le emissioni cinesi continuano a crescere per il forte ricorso al carbone e la scarsa efficienza energetica del sistema produttivo. Un gradino più in basso, al 52° posto, si piazzano gli Stati Uniti, secondo emettitore globale che però guadagna tre posizioni rispetto allo scorso anno: un risultato attribuibile alla nuova politica climatica ed energetica dell’Amministrazione Biden che inizia a dare i suoi primi frutti, grazie al considerevole sostegno finanziario all’azione climatica previsto dall’Inflation Reduction Act.
Tra i Paesi del G20, solo India (8^), Regno Unito (11°) e Germania (16^) si posizionano nella parte alta della classifica, mentre l’Unione Europea sale di tre gradini rispetto allo scorso anno, raggiungendo il 19° posto grazie a nove Paesi posizionati nella parte alta della classifica, frenata però dalle pessime performance di Ungheria e Polonia che continuano a essere fanalino di coda.
Analizzando più nel dettaglio il posizionamento italiano, si evidenzia come il sostanziale immobilismo nella performance climatica sia dovuto al rallentamento nello sviluppo delle rinnovabili – che vede l’Italia 33esima nella classifica specifica – e a una politica climatica nazionale ancora inadeguata a fronteggiare l’emergenza climatica. L’attuale Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), infatti, consente un taglio delle emissioni di appena il 37% rispetto al 1990 entro il 2030.
“Serve una drastica inversione di rotta,” commenta Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente. “Si deve aggiornare al più presto il PNIEC per garantire una riduzione delle nostre emissioni climalteranti, in linea con l’obiettivo di 1.5°C, di almeno il 65% entro il 2030. Andando, quindi, ben oltre l’obiettivo del 51% previsto dal PNRR e confermando il phase-out del carbone entro il 2025, senza ricorrere a nuove centrali a gas. L’Italia può centrare l’obiettivo climatico del 65%, soprattutto grazie al contributo delle rinnovabili, ma deve velocizzare sia gli interminabili iter di autorizzazione dei grandi impianti industriali alimentati dalle fonti pulite sia quelli delle comunità energetiche, causati soprattutto dai conflitti tra ministero dell’ambiente e della cultura e dalle inadempienze delle regioni”.
Focus Italia. Secondo Climate Analytics, in Italia è possibile raggiungere almeno il 60% nel mix energetico e fino al 90% nel mix elettrico entro il 2030 e arrivare al 100% di rinnovabili nel settore elettrico già nel 2035, creando così le condizioni per giungere alla neutralità climatica ben prima del 2050. Una scelta già fatta dalla Germania, che si è impegnata a raggiungere la neutralità climatica entro il 2045 con il 100% di produzione elettrica rinnovabile entro il 2035.
Potenzialità confermate anche da Elettricità Futura, la quale di recente ha ribadito che le sue imprese “assicurano da tempo la loro capacità di realizzare fino a 20 GW l’anno, se le autorizzazioni pubbliche riuscissero a reggere il ritmo (oggi marciano a circa 1 GW l’anno)”. Mentre per raggiungere l’obiettivo del 45% previsto da REPowerEU sono sufficienti circa 10 GW di nuovi impianti l’anno, ossia 85 GW di rinnovabili entro il 2030.
Per l’Italia, un’accelerazione delle rinnovabili coerente con il REPowerEU comporta benefici davvero importanti per l’economia, la società e l’ambiente, sempre secondo Elettricità Futura. Si tratta di 309 miliardi di euro di investimenti cumulati al 2030 del settore elettrico e della sua filiera industriale, di 345 miliardi di benefici economici cumulati al 2030 in termini di valore aggiunto per filiera e indotto, di 470 mila nuovi posti di lavoro nella filiera e nell’indotto elettrico nel 2030 (che si aggiungeranno ai circa 120 mila attuali) e di una riduzione del 75% delle emissioni di CO2 del settore elettrico nel 2030 rispetto al 1990.
“Una strada che, se percorsa adeguatamente e nei giusti tempi, consentirebbe,” commenta Mauro Albrizio, responsabile ufficio europeo di Legambiente, “di vincere la sfida della duplice crisi energetica e climatica, la quale rischia di mettere l’Italia in ginocchio”.
Fonte: legambiente.it
Foto: shutterstock