Interessante pronuncia della Corte di Cassazione Penale Sez. 3^ del 31 luglio 2023 sulla Sentenza n.33418 relativa all’applicazione su latticini di un “Bollo CE” mendace in ordine alla provenienza del bene.
Afferma, infatti, che costituisce frode nell’esercizio del commercio l’applicazione su latticini del bollo “IT” riferibile ad altro produttore, in quanto tale marcatura, mendace in ordine alla provenienza del bene, lede la correttezza nei rapporti commerciali, ingannando il consumatore e, al contempo, danneggiando l’effettivo produttore.
A seguito di una verifica effettuata presso il punto vendita del caseificio XXX s.r.l., viene accertato che sul banco frigo erano esposti alla vendita ricotte e forme di formaggio confezionati sottovuoto, i quali riportavano, oltre all’etichetta adesiva della XXX s.r.l, la dicitura “prodotto confezionato da IT XX/XXX CE” che, a seguito di una verifica presso il sito del Ministero della salute, si appurava che corrispondeva ad altro operatore. Dall’esame della documentazione contabile, è emerso che i prodotti con quel bollo erano stati acquistati non dall’azienda della quale era riportato il bollo, bensì da un’Azienda Agricola che aveva un “Bollo CE” diverso. Il fatto viene qualificato come tentativo di messa in commercio di prodotti lattiero-caseari che, per origine e provenienza, erano diversi da quelli dichiarati in etichetta. Viene quindi emessa una condanna per il reato di cui agli artt. 56, 515 del codice penale.
Si ricorda che la frode in commercio punisce con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a 2065 euro “chiunque, nell’esercizio di una attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita”.
La difesa
Gli imputati, nel ricorso in cassazione, chiedevano la riqualificazione del fatto ritenendo lo stesso ascrivibile non alla frode in commercio, ma all’illecito amministrativo di cui all’art. 6 D.Lgs. n. 193 del 2007 (che prevede una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 1.000 a euro 6.000 per l’operatore del settore alimentare operante ai sensi dei Regolamenti (CE) n. 852/2004 e n. 853/2004, che, a livello diverso da quello della produzione primaria, “omette di predisporre procedure di autocontrollo basate sui principi del sistema HACCP, comprese le procedure di verifica da predisporre ai sensi del Regolamento (CE) n. 2073/2005 e quelle in materia di informazioni sulla catena alimentare”) e/o all’art. 13 D.Lgs. n. 231 del 2017 (secondo cui “salvo che il fatto costituisca reato, la violazione delle disposizioni relative a contenuti e modalità dell’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza di cui all’articolo 26 del regolamento comporta l’applicazione al soggetto responsabile della sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da 2.000 euro a 16.000 euro”). Ciò in quanto la contestazione sarebbe stata l’errata apposizione di un bollo sanitario, che, da solo, non avrebbe potuto ingenerare alcuna confusione sul consumatore finale, trattandosi di una mera indicazione tecnica.
Secondo la tesi difensiva in base al Regolamento CE n 853/2004, il “Bollo CE” costituirebbe un’autorizzazione sanitaria, volta a consentire la libera circolazione fra i Paesi dell’UE ed extra UE di alimenti di origine animale. In sostanza nel ricorso si sosteneva che sull’etichettatura erano presenti tutte le informazioni obbligatorie prescritte dall’art. 9 Reg. UE n. 1169/11, ossia la corretta indicazione di provenienza dell’alimento con riguardo dal venditore (la XXX s.r.l.), sia pure con l’aggiunta di un errato Bollo CE, frutto di confusione applicativa. Quindi la condotta dell’imputato sarebbe consistita in un mero errore di confezionamento del prodotto, dovuto a superficialità nelle operazioni di imballaggio, durante le quali si era confuso il vecchio fornitore di formaggi con il nuovo, trattandosi della stessa tipologia di merce casearia.
La decisione
La Corte di Cassazione pur confermando la condanna, si discosta da quanto deciso nei primi gradi di giudizio in cui la sussistenza del delitto di frode era stata ravvisata sul presupposto che “la marcatura CE non funge da marchio di qualità o d’origine (come quello relativo a una determinata origine territoriale del prodotto), bensì attiene alle qualità organolettiche e nutritive, etc. di uno specifico prodotto, che è quello alimentare”. Per la suprema Corte tale tesi è in parte errata .
È ben vero, si legge nella motivazione che, per costante giurisprudenza, integra il reato di tentativo di frode in commercio il detenere, anche presso un esercizio commerciale di distribuzione e vendita all’ingrosso, prodotti privi di marcatura “CE” o con marcatura “CE” contraffatta (Sez. 3, n. 17686 del 14/12/2018, dep. 29/04/2019, Jia, Rv. 275932; Sez. 3, n. 27704 del 21/04/2010, dep. 16/07/2010, Amato, Rv. 248133), atteso che la dicitura “CE” non identifica un marchio propriamente detto, inteso come elemento, o segno, o logo, idoneo a distinguere un manufatto da un altro, ma assolve alla diversa funzione di garantire al consumatore la conformità del prodotto su cui è apposta ai livelli di qualità e di sicurezza previsti dalla normativa dell’Unione Europea (Sez. 2, n. 30026 del 25/05/2021, Islam, Rv. 281809). Ma, osservano gli ermellini, non è questa la situazione accertata nel caso esaminato, in cui la marcatura IT 15/436 CE identifica non l’effettivo fornitore dei prodotti caseari, ma uno diverso comunque titolare di un “Bollo CE” (come emerso dalle indagini). Il tema quindi era verificare se l’apposizione di un “Bollo IT” di un altro produttore integrasse, o meno, i presupposti del delitto di cui all’art. 515 cod. pen. Sul punto la risposta è stata affermativa.
Dopo aver ripercorso le principali disposizioni del Reg. CE 853/2004, nella motivazione si legge che “deve ritenersi che il codice identificativo univoco svolge una duplice funzione, in quando esso, per un verso, mediante la sigla CE garantisce il rispetto dei pertinenti requisiti di cui al regolamento (CE) n. 852/2004, e, per altro verso, attraverso un codice alfanumerico, individua uno specifico produttore. Ciò posto, [...] la norma dell’art. 515 cod. pen. non tutela soltanto il compratore, ma, inserita tra i delitti contro l’industria e il commercio, intende proteggere i principi di onestà e lealtà che devono presiedere allo scambio dei beni, onde renderlo integro e sicuro con profittevoli risultati tanto per chi ne fa uso, quanto per il produttore. Essa è volta a tutelare anche l’interesse del produttore che, per il contegno ingannevole del commerciante e per la remora nelle vendite che può seguire, veda ridotta la richiesta dei beni e parallelamente la spinta alla loro produzione.
[...] In applicazione dei principi appena richiamati deve ritenersi che integri l’elemento oggettivo del delitto di frode in commercio l’erronea applicazione del bollo IT, in quanto esso risulta mendace in ordine alla provenienza del bene, e, quindi, lede la correttezza nei rapporti commerciali, ingannando il consumatore e, al contempo, danneggiando l’effettivo produttore”.
La Suprema Corte ha inoltre ritenuto provato il dolo (che si ricorda è necessario per la sussistenza del reato di frode in commercio – NDR) “dal numero di etichette mendaci rinvenute nello stabilimento, ossia ben sette bobine di etichette adesive, per un totale di 14.000 etichette, il che, evidentemente, esclude la sussistenza di un mero errore, deponendo, piuttosto, per la volontarietà della condotta”.
Conclusioni
La sentenza della Corte di Cassazione appare interessante, in quanto chiarisce la duplice valenza del “Bollo IT” (marchiatura di identificazione) che deve essere apposto sui prodotti di origine animale, ossia: garanzia del rispetto dei pertinenti requisiti di cui al Regolamento (CE) n. 852/2004, e strumento di individuazione di uno specifico produttore, con conseguente integrazione della frode in commercio quando tale bollo non corrisponde effettivamente a quello dichiarato.
Avv. Chiara Marinuzzi
Studio Legale Gaetano Forte