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La Legge 562/1926, che convertì il Regio Decreto Legge 2033/1925 sulla repressione delle frodi del Ministro per l’economia Belluzzo e firmato da Vittorio Emanuele III afferma che: “ll nome di «formaggio» o «cacio» è riservato al prodotto che si ricava dal latte intero ovvero parzialmente o totalmente scremato, oppure dalla crema, in seguito a coagulazione acida o presamica, anche facendo uso di fermenti e di sale di cucina”.

Quasi 30 anni dopo, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi con il DPR 1099/1953 diede esecuzione agli accordi di Stresa sulla denominazione dei formaggi. La traduzione non ufficiale del testo dal francese così dice: “La parola formaggio è riservata al prodotto fermentato o non fermentato [fresco o stagionato, nella versione inglese], ottenuto per separazione [N.d.A., di siero] dopo la coagulazione del latte, della crema, del latte parzialmente o totalmente scremato, o di loro miscela, così come al prodotto ottenuto per concentrazione parziale del siero o del latticello”.

La vigenza della Legge 562/1926, comunque prevalente sulla meno nota ma più completa definizione data dal DPR 1099/1953, può contribuire a favorire lo spreco alimentare.

Il caso del latticello, prodotto nutrizionalmente valido affidato di fatto anche dal Parlamento repubblicano al consumo animale o all’industria biotecnologica, quella anche del latte sintetico per capirci, è esemplare. Il latticello derivante dalla zangolatura della crema di latte, sia essa di affioramento o di centrifuga, ha composizione analoga al latte magro, salvo un maggiore tenore di componenti della membrana del globulo di grasso, fra cui i fosfolipidi. Ne deriva che il latticello si può ben prestare alla caseificazione, come per altro afferma anche il Codex Alimentarius che inserisce il latticello fra gli ingredienti possibili del formaggio (Standard 283/1978).

Il regime degli aiuti comunitari (iniziato nel 1975 e cessato nel 2013) al latticello per uso zootecnico derivante da crema di latte aveva complicato la questione, prima per la sua possibile sostituzione con latticello derivante dalla crema di siero, poi perché altri successivi aiuti per l’ammasso del latte in polvere per uso umano avevano reso una frode l’addizione di qualsivoglia latticello. La cessazione degli aiuti al latticello ha fatto tuttavia venire meno la frode economica quando usato nel formaggio, ma questo non può accadere in Italia ove vige ancora la norma regia.

La capacità competitiva dell’industria casearia italiana, come per il latte in polvere, è quindi sotto stress supplementare rispetto a quella europea.

Ricordandoci che circa la metà dei formaggi italiani non sono tutelati dalla DOP, non sarebbe forse il momento di adottare la definizione di formaggio del Codex, creando le condizioni per ridurre lo spreco di derivati del latte, grazie anche al recupero caseario del latticello?

Germano Mucchetti
Professore ordinario di Scienze e tecnologie alimentari 

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