Ogni anno, più di otto milioni di tonnellate di rifiuti di plastica finiscono nel mare.
Ed è del 2016 la stima che, entro il 2050, il volume di materie plastiche accumulate negli oceani sarà maggiore di quello del pesce in essi contenuto. Ma non sono quelle macroscopiche l’unico problema.
L'EFSA (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) definisce microplastiche le particelle di dimensioni comprese tra 0,1 e 5000 micrometri (µm). Le nanoplastiche misurano da 0,001 a 0,1 µm (ossia da 1 a 100 nanometri). Esse sono una preoccupazione urgente e crescente in quanto invadono le catene alimentari e scivolano attraverso i sistemi di purificazione senza essere individuate.
Si tratta di minuscole fibre e particelle di plastica che provengono da oggetti di uso quotidiano (abiti, vernici, pneumatici, ecc…) e si disperdono nell’ambiente attraverso semplici attività quotidiane come fare il bucato, nuotare, guidare per le strade. Derivano dai polimeri di maggior uso, come polietilene, polipropilene, polistirene, poliammide (nylon), polietilene tereftalato (PET), polivinilcloruro (PVC), acrilico, polimetilacrilato (PMA).
Quando i rifiuti di plastica si rompono e si disperdono nel nostro ambiente, diventano sempre più piccoli e si trasformano in fibre. Esse sfuggono agli impianti di depurazione e possono finire quindi nei corsi di acqua dolce, negli impianti di trattamento comunali e perfino nell'acqua di rubinetto. Queste fibre possono assorbire sostanze chimiche tossiche presenti nell'acqua, come pesticidi o inquinanti diversi e, entrando quindi nella catena alimentare man mano che gli organismi le consumano, trasferiscono queste sostanze potenzialmente tossiche nei loro corpi fino ad arrivare sui nostri piatti. L’ingerimento di fibre contaminate comporta un pericolo fisico, con danni ai tessuti, e chimico, con conseguente bioaccumulo e tossicità epatica; infatti, assorbiamo meno dell’1% di queste microparticelle, ma esse si accumuleranno comunque nel corpo nel tempo.
L’origine delle microplastiche è varia, ma di recente i riflettori sono stati puntati sulle cosiddette microsfere, minuscole palline di plastica che si trovano in alcuni scrub cosmetici per il viso e dentifrici. Come le microfibre (i fili degli indumenti sintetici persi durante il bucato e i detriti di gomma delle gomme dei veicoli), questi minuscoli pezzi di plastica sono troppo piccoli per essere filtrati dai nostri sistemi di acque reflue ed enormi quantità finiscono nel mare. Le materie plastiche monouso per l'imballaggio, oltre un terzo di tutto ciò che produciamo, sono comunque il problema maggiore.
Alcuni studi hanno avvertito che le microplastiche, in particolare su scala nanometrica, potrebbero trasferirsi dall'intestino alla carne (senza considerare che alcune specie di piccoli pesci e crostacei sono consumati interi).
L’EFSA ha sollecitato una ricerca urgente, citando una crescente preoccupazione per la salute umana e la sicurezza alimentare "dato il potenziale di inquinamento microplastico nei tessuti commestibili dei pesci commerciali".
Il professor Richard Thompson, uno dei maggiori esperti internazionali di microplastiche e detriti marini, che lavora in questo campo da oltre 20 anni, è però ottimista: “Bisognerebbe mangiare oltre 10.000 cozze all'anno per raggiungere la quantità di plastica potenzialmente dannosa", afferma. “Le quantità sono basse e ai livelli attuali è probabile che l’esposizione umana alle microplastiche nei prodotti ittici è probabilmente inferiore a quella quotidiana alle materie plastiche, dai giocattoli alle giacche di pile”. Nonostante ad oggi non ci sia un allarme sanitario, il professore tuttavia aggiunge che occorre stare in guardia per il prossimo futuro, poiché se non si mette in atto un cambiamento, lo scenario nei prossimi dieci, vent’anni potrebbe peggiorare.
La valutazione del rischio per l’esposizione alle microplastiche
Ai fini della valutazione del rischio per l’esposizione alle microplastiche, la commissione di esperti riunita nel 2017 ha evidenziato e riconosciuto la presenza di molte lacune di ricerca e incertezze scientifiche esistenti sulla gestione del rischio di microplastiche. In particolare si è constatata l’esigenza di condurre ricerche per caratterizzare l'esposizione umana e gli impatti delle microplastiche nell’ambiente, al fine di valutare i potenziali rischi per la salute umana.
Per arrivare a questi risultati sono state proposte varie strategie, tra le quali ad esempio:
- stabilire metodi affidabili e riproducibili per la quantificazione e caratterizzazione delle microplastiche;
- comprendere come le microplastiche vengono disperse nell’ambiente con il normale uso e usura dei prodotti di consumo, l'agricoltura, le pratiche e i processi di gestione dei rifiuti;
- creare test di tossicità standardizzati per le microplastiche in sistemi ecologicamente rappresentativi per comprendere gli impatti ecologici, la biodisponibilità e il rischio di traslocazione di tali particelle, la loro capacità di bioaccumulo chimico, e come sviluppare relazioni dose-risposta;
- condurre ricerche per valutare l'esposizione umana alle microplastiche assunte tramite l'acqua potabile, il cibo, in particolare i prodotti ittici, per valutare i potenziali rischi per la salute umana.
Marialisa Giuliani
Tecnologo alimentare OTA Abruzzo